Ciò che ha sempre contraddistinto la materia locatizia è stata la sua imperatività. L’imperatività è costituita da due elementi:
Il primo elemento deriva dal fatto che le norme sulle locazioni sono norme imperative di ordine pubblico economico di protezione; sono cioè norme inderogabili, contrattualmente, anche dalle parti stesse, che corrispondono ad una finalità economica della legge che è quella di tutelare il contraente più debole, ovvero il conduttore, dalla maggiore forza contrattuale del proprietario.
Il secondo elemento è il rimedio attraverso il quale la legge raggiunge il suo scopo di creare parità sostanziale tra le parti attraverso il privilegio di quella meno forte. La sostituzione automatica delle clausole nulle, infatti, configura un’eccezione in materia contrattuale, ove alla nullità di un elemento essenziale segue la nullità del rapporto; nelle normative di protezione, infatti, l’annullamento del contratto frustrerebbe la finalità della legge, per cui alla clausola nulla viene automaticamente sostituita quella legale, per cui il rapporto viene conservato.
La prima legge organica in materia di locazioni è la L. 392/78, meglio conosciuta come equo canone; oggi è ancora in vigore sotto alcuni profili per quanto riguarda le locazioni abitative e, per intero, per quanto riguarda le locazioni non abitative.
L’imperatività dell’equo canone era sancita dall’art. 79, il quale sanzionava con la nullità ogni clausola contrattuale che potesse apportare un vantaggio al locatore che non fosse previsto dalla legge.
L’equo canone era diviso in due parti fondamentali:
a)-La durata, che era prevista nella misura minima di quattro anni, con rinnovo automatico salva la disdetta da comunicarsi almeno sei mesi prima della scadenza;
b)-Il canone, che era previsto nella misura massima, secondo calcoli che tenevano conto della superficie, della vetustà, dell’ubicazione ecc.; il canone base (calcolato al 1978) veniva aggiornato in ragione del 75% massimo dell’inflazione e, ai sensi dell’art. 23, veniva adeguato degli interessi sulle spese sostenute dal locatore per lavori straordinari.
Le spese di amministrazione ordinarie erano, ai sensi dell’art. 8, dovute dal conduttore solo per consumi e servizi (90% portineria) l’imposta di registro al 50%.
Secondo il disposto dell’art. 79, il conduttore poteva ripetere i canoni indebitamente versati oltre quanto stabilito dai parametri entro sei mesi dal rilascio.
Vengono ricompresi tra gli usi non abitativi tutti quelli che non sono abitativi (sottoposti alla specifica disciplina) o che corrispondano ad esigenze transitorie del conduttore ai sensi dell’art. 26; sono, pertanto, sottoposti alla disciplina dei non abitativi i locali destinati a impresa commerciale, artigianale, attività professionale, ma anche finalizzati ad attività non lucrativa quali circoli associativi, associazioni e partiti. Sono attratti, per uniforme orientamento della giurisprudenza, i contratti relativi a magazzini e depositi funzionalmente e spazialmente collegati ad attività economiche (ad esempio se si affitta un magazzino ad un privato non vi è vincolo, ma se il magazzino è collegato ad un’attività segue la normativa).
L’uso non abitativo non contempla un vincolo al canone, che è liberamente determinato dalle parti, ma il limite minimo della durata non solo è stabilito in sei anni (nove per gli alberghi), con obbligo di disdetta almeno un anno prima (diciotto mesi per gli alberghi) ma è altresì previsto un rinnovo obbligatorio fatti salve specifiche esigenze del locatore (abitative, professionali ecc.).
Alla scadenza il conduttore ha diritto di prelazione e ha diritto alla corresponsione di diciotto mensilità per la perdita di avviamento commerciale (le mensilità sono raddoppiate se viene intrapresa la stessa attività del conduttore da altro soggetto), ma detti oneri del locatore sono limitati al fatto che nei locali l’impresa operasse a contatto con il pubblico (e, comunque, solo per attività artigianali e commerciali, non professionali o altro).
I patti in deroga hanno rappresentato un importante momento per le locazioni abitative, anche se oggi la normativa è stata abrogata dalla nuova legge sulle locazioni abitative.
I patti in deroga hanno segnato, dal punto di vista sociale e politico, la liberalizzazione dei canoni.
In effetti, l’art. 11 L. 359/92, permetteva alle parti, con un sistema di rinnovo obbligato, salvo casi speciali, e quindi con un meccanismo molto simile agli usi diversi, di derogare l’equo canone per quanto riguardava l’importo dell’affitto, consentendo una vera e propria liberalizzazione.
Invero, dal punto di vista strettamente giuridico, i binari erano molto stretti, per cui bastava uscire dal raddoppio della durata (ad esempio prevedendo una durata minore del rapporto-due più due, uno più uno ecc.) che veniva applicato l’equo canone quadriennale e questo in quanto l’equo canone rimaneva la normativa principale e fondamentale.
Sono sottratti ad ogni normativa vincolistica un’importante fetta degli immobili più signorili (ville, appartamenti signorili, immobili storici) e le destinazioni ad uso turistico; in questi contratti si applica esclusivamente il codice civile, senza alcun limite tra le parti che non sia dettato dal buon costume.
Contratti canale libero
Rispecchiano i patti in deroga, anche se non vi è il rischio di ricadere nell’equo canone che è stato definitivamente abrogato, per quanto riguarda il prezzo della locazione, nonostante permangano alcune norme quali, ad esempio, l’art. 9 relativo alle spese di amministrazione.
La durata è di quattro anni rinnovabile obbligatoriamente la prima volta, salvi casi particolari di necessità (tra i quali la vendita se si ha solo l’immobile ove si vive oltre a quello locato, ma è prevista la prelazione) ed è previsto il rinnovo automatico, salva disdetta sei mesi prima, anche se è prevista una procedura di rinnovo se le parti sono intenzionate a trattare.
Il canone è liberamente stabilito dalle parti; non è previsto aumento ISTAT, né in caso di lavori, per cui sussiste effettivo dubbio interpretativo sulla possibilità di aumenti in corso di rapporto e si, in quale misura.
In contratti ad uso abitativo hanno la durata di tre anni, con proroga di due salvi motivi speciali; si rinnovano se non viene inviata disdetta tre mesi prima.
I modelli sono stabiliti a livello nazionale, mentre le associazioni di categoria, a livello comunale, stabiliscono le misure minime e massime.
Il locatore che accede a questi contratti può contare su un bonus fiscale del 30% per il registro e per l’IRPEF, mentre in relazione all’ICI decide il Comune.
1)-La durata dei contratti non può essere inferiore a quanto stabilito dalla legge (evidentemente per quelli per i quali è prevista una durata minima);
2)-Il locatore non può percepire somme maggiori di quello che è stato stabilito dalle associazioni (nei contratti concordati), né da quanto risulta dal contratto scritto e registrato (il conduttore ha tempo sei mesi dal rilascio per chiedere la restituzione di quanto pagato oltre il dovuto);
3)-Il contratto deve essere necessariamente scritto, ma se il locatore impone un rapporto di fatto per percepire un canone "in nero", il conduttore può ottenere che il Giudice dichiari la sussistenza di un contratto a "canone concordato".
L’art. 447 bis c.p.c. dispone che alle locazioni sia applicato il rito del lavoro; il rito del lavoro è connotato da caratteristiche di oralità, e concentrazione, ciò significa che sono previste poche difese scritte e le tre fasi (introduzione, istruttoria e decisione) sono determinate da atti semplici e poco articolati; ad esempio la fase della decisione non contempla, di norma, scambio di difese e repliche scritte ma una discussione orale seguita da una sentenza il cui dispositivo viene letto in udienza dopo la discussione.
In realtà la finalità del legislatore è stata completamente disattesa; la carenza di organico, la effettiva complessità della materia che ha dato luogo ad una copiosa giurisprudenza a volte contrastante, ha fatto si da un lato, che le cause durassero ancora di più che quelle ordinarie, stante la necessità di fissare udienze di comparizioni parti, discussioni ecc., dall’altra che le varie questioni non potessero venire debitamente ponderate attraverso difese scritte e decisioni meditate, ma da discussioni orali e sentenze immediate.
Nel primo caso, qualora il conduttore non corrisponda il canone nei venti giorni oltre il termine e le spese di amministrazione (che devono raggiungere per entità le due mensilità di canone oltre i due mesi dalla richiesta) il locatore può intimare al conduttore lo sfratto, citandolo a comparire nanti il tribunale.
A quel punto, qualora il conduttore non compaia, ritirando gli atti, il giudice convaliderà lo sfratto, qualora non abbia ritirato gli atti il giudice ordinerà una rinotifica e convaliderà in ogni caso alla seconda udienza; qualora il conduttore compaia e non si opponga, potrà chiedere termine di grazia fino a tre mesi per il pagamento (il termine non è ammesso per gli usi non abitativi), qualora paghi, il procedimento verrà estinto, qualora non paghi lo sfatto verrà convalidato; qualora il conduttore si opponga allo sfratto il giudice, se richiesto, potrà emettere ordinanza provvisoria di rilascio e, comunque, trasformerà il rito in procedura ex art. 447 bis c.p.c..
Anche lo sfratto per finita locazione segue la stessa procedura della morosità; in questo caso il conduttore, non opponendosi, può ottenere fino ad un anno di proroga ai sensi dell’art. 56 L.392/78.
A seguito di emissione di ordinanza di rilascio (o di sentenza se vi è stata opposizione) il locatore notifica il titolo esecutivo munito di precetto, che è un intimazione di rilasciare l’immobile entro dieci giorni; qualora il rilascio non avvenga l’Ufficiale Giudiziario notificherà un avviso con la data dell’accesso forzato e procederà all’ingresso nei locali con un fabbro e con la forza pubblica.
Mentre nello sfratto per morosità non sono ammesse proroghe (anche se di fatto l’Uff. Giud. non esegue mai al primo accesso, ma ne fissa solitamente un secondo e, se insorgono difficoltà, anche un terzo ed un quarto) nella finita locazione si sono succedute proroghe di vario genere.
Dapprima le proroghe vedevano l’interruzione della procedura esecutiva; quindi, a seguito di ammonizione della Corte Costituzionale, il governo inventò l’introduzione di una procedura amministrativa devoluta al Prefetto inserita nel procedimento esecutivo giudiziario volto a graduare l’intervento della Forza Pubblica negli sfratti (e bloccandoli per anni); oggi, nella legge 431/98, è previsto che il conduttore possa richiedere con ricorso, una sola volta, al giudice, una ulteriore proroga a quella di una anno di cui all’art. 56 L. 392/78; la proroga può essere, al massimo, di sei mesi, per i casi normali, da nove a diciotto mesi per casi particolari di disagio (anziani, malati, in attesa della propria casa ecc.); in questi ultimi casi gli sfratti sono stati bloccati con reiterate proroghe per legge.